da "La Vita Sacra", di Sonia Savioli
Stiamo assistendo, con la scusa dell'emergenza sanitaria, ad un assalto furibondo per demolire ogni barriera legislativa che ancora tutelava, benché inadeguatamente, l'ambiente e i beni pubblici. Il demente capitalismo globale cerca di fare man bassa su ogni risorsa disponibile, si appropria delle parole dell'ambientalismo, "sostenibile", "compatibile", "verde" per descrivere il loro esatto contrario: una economia di snaturamento, distruzione e dissipazione che, se attuata, sarebbe l'ultimo e definitivo scempio di un pianeta già vicino al collasso. La dittatura pandemica glielo permette: ha annientato i movimenti ambientalisti, ci ha costretti a lottare non per un cambiamento epocale, che sarebbe più che mai necessario, ma solo per difendere quel minimo di libertà individuale e collettiva senza la quale la vita non è più umana. E' ora di tornare all'attacco, di unire le forze contro un sistema di morte; di costringerlo a difendersi, invece di restare noi in difesa. Per farlo dobbiamo anche capire quanto siamo parte di questo sistema, quanto i nostri comportamenti abbiano contribuito a nutrirlo, a farlo crescere economicamente e moralmente. La colpa non è tutta dei "cattivi".
La Sardegna coperta di foreste fu disboscata prima dai soliti romani, poi, dopo l’unità d’Italia, da boscaioli piemontesi e toscani: imprese, aziende del disboscamento per fare carbone per l’industria che nasceva con il nuovo regno. Così come oggi si rapano le colline e le montagne dell' Appennino per fare cippato, pellet, “biomasse”.
Ma lì e a quel tempo il disboscamento era anche un modo per espropriare popolazioni troppo libere. La Sardegna era allora una terra di pastori e contadini ma non era, come è oggi, una “monocultura” di formaggio pecorino. Lo divenne poi. Spogliata delle sue foreste, che davano al popolo cibo, combustibile, pascolo; privata delle terre comuni, che diventarono proprietà di latifondisti spesso stranieri, fu spinta verso una produzione intensiva che impoverì ancora di più i terreni.
Si ribellò, il popolo sardo, e la sua ribellione fu repressa ferocemente. In quel che restava delle foreste si rifugiarono i ribelli. I banditi.
La solita storia: foreste e libertà dei popoli sembrano essere strettamente collegate. Lo sono sempre per le libere comunità contadine e primitive. Valeva ieri per i celti o i sardi, vale oggi per gli abitanti del Borneo o della valle dell’Omo in Etiopia.
Ogni anno spariscono dieci milioni di ettari di foreste tropicali. Spariscono miliardi di alberi e piante di ogni specie. E uccelli, scimmie, elefanti, coccodrilli, felini, cervidi piccoli roditori: una folla eterogenea di vite diverse; insetti, serpenti, rane e rospi, ragni, pesci e tritoni, salamandre. Abitanti delle fronde, della terra e delle acque scompaiono, spazzati via come da un’immane tempesta. E spariscono, schiacciati, disseccati, inceneriti, dilavati, tutti i minimi abitanti del suolo fertilissimo e fragile delle foreste tropicali.
Abbiamo già distrutto l’ottanta per cento delle foreste del pianeta, e la maggior parte è stata distrutta negli ultimi trenta anni.
Siamo gli scuoiatori della Madre Terra.
Antonio Gramsci scriveva nel 1919 sull’Avanti: “L’isola di Sardegna fu letteralmente rasa al suolo… Caddero le foreste, che ne regolavano il clima e le precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi, alternanza di lunghe stagioni aride e rovesci alluvionanti, l’abbiamo ereditata allora.”
Ma i nostri figli non erediteranno nulla. A meno che noi non torniamo sui nostri passi, fino a ritrovare quelli di tanto tempo fa, leggeri sulla terra.
Siamo così lontani dalla cultura della vita, che molti di noi non sono in grado di capire le motivazioni del culto degli alberi presso i popoli antichi e quelli ancora primitivi. Eppure, non sono mai state evidenti come adesso. Il nostro pianeta boccheggia e soffoca, e gli alberi sono i suoi polmoni, che noi stiamo distruggendo. Le “lunghe stagioni aride” e i “rovesci alluvionanti” sono ormai il clima di tutta la terra. I deserti aumentano al ritmo di ventitré ettari al minuto, grazie ai disboscamenti, alle coltivazioni intensive, al cambiamento climatico. Tutte cose prodotte dai nostri dementi consumi, dalla nostra smania di possedere e ottenere sempre di più, di competere in esibizioni, possessi, ricchezze.
Ma non lo sappiamo. La società sacrilega ha distrutto la terra e la vegetazione ma ha distrutto, prima di tutto, la nostra capacità di comprendere: quello che oggi chiamiamo “senso critico”. La facoltà di essere consapevoli delle conseguenze che producono le nostre azioni. Un’umanità sotto ipnosi agisce ormai in totale incoscienza e irresponsabilità.
I nostri gamberetti surgelati, che ci piace ficcare nel risotto, nelle salse, nelle insalate, sulle tartine, hanno ucciso milioni di mangrovie.
Ucciso? Ma non usiamo mai questa parola per le piante. Come se non fossero esseri viventi. Parliamo di distruzione, non di strage. Eppure le piante muoiono.
Dal 1980 al 2008 sono stati distrutti nel mondo quasi due milioni di ettari di mangrovieti. Come dire che enormi paesi, con miliardi di creature viventi, sono stati rasi al suolo, spianati, avvelenati: due milioni di ettari di morte e distruzione.
Le mangrovie sono piante strane: riescono a vivere con le radici a mollo nell’acqua salata, o almeno parte delle radici. Vivono dunque al bordo della terra sul mare in quella che è una foresta paludosa. Sotto la loro protezione prosperano più di cinquanta tipi di alberi e arbusti, e poi rettili, anfibi, insetti, uccelli e mammiferi e, ovviamente, pesci, persino pesci anfibi. Un mondo e un mondo particolare, che dipende dalle mangrovie e che con la propria esistenza preserva le coste dall’erosione e preserva le barriere coralline dal venire soffocate dalla terra erosa.
Un mondo che respira, e il respiro delle mangrovie ossigena la nostra aria; che muore e si decompone creando humus e nuova vita; che si ciba ed è cibo e rinnova continuamente il ciclo vitale.
Gli allevamenti di gamberetti, come tutte le artificiali industrie umane, sono un bubbone di sofferenza distruttiva. Nel nudo terreno, dove prima viveva la foresta di mangrovie, ci sono enormi vasche, grandi parecchi ettari, in cui entra e poi ristagna acqua di mare, e in cui vengono gettate le femmine gravide, in mare catturate.
I piccoli gamberi sono allevati in un putridume formato dalla loro stessa folla defecante, nutriti di pappe composte di milioni di pesci pescati dentro le barriere coralline e ridotti in poltiglia, e di quotidiani antibiotici e disinfettanti. La loro orrenda vita e la loro morte surgelata finiscono nei nostri frigoriferi, nei ristoranti a buon mercato come in quelli di lusso, nelle mense aziendali e nelle tartine degli aperitivi.
Mangiamo la loro sofferenza e le loro malattie, le medicine che sono servite solo a non farli imputridire ancor prima di morire.
Laggiù, dove le mangrovie sono state abbattute e sradicate, dopo cinque anni anche le vasche sono abitate solo da fantasmi: perché acqua e suolo sono talmente avvelenati che nessuno, nemmeno con tutti gli antibiotici del mondo, può sopravvivere.
I contadini che abitavano nei villaggi ai margini delle foreste di mangrovie, però, sono ormai rovinati: la terra è intrisa di acqua salata e di veleni, la costa si sta erodendo, dove c’era un pullulare di vita c’è un deserto avvelenato e le loro comunità sono distrutte. Non solo perché ogni comunità umana dipende dalla terra su cui vive ed è ad essa conforme, ma anche perché le imprese dei gamberi (subappalti di multinazionali) hanno portato in mezzo a loro dei lavoratori, poco più che schiavi in realtà, estranei, sradicati e randagi, e con essi è arrivato il furto, lo stupro, la violenza, la diffidenza e la paura.
Ora quei contadini senza più una terra da coltivare e senza una comunità che li sostenga e li protegga, sono emigrati verso le città. Dove i loro figli, sradicati e randagi, saranno usati come schiavi dalle imprese multinazionali e da quelle locali che le servono. E una parte di loro ruberà, stuprerà ucciderà. Avendo ormai perso compassione, empatia, rispetto per gli altri esseri viventi.
Così la distruzione delle mangrovie, di un ambiente naturale con tutte le sue creature vegetali e animali, aumentando il potere dei dominatori, aumenta la sofferenza e lo sfruttamento umano.
La stessa guerra alle foreste viene fatta in altri luoghi del mondo da altre industrie, per piantare palme da olio.
L’olio di palma prodotto per il capitalismo e il consumismo occidentali non è commestibile. E’ estratto dai frutti o dai semi della palma da olio ed è, in origine, solido e di colore rosso. Evidentemente, in tale forma non è utilizzabile dall’industria alimentare, perciò viene raffinato. Con la raffinazione vengono distrutti tutti gli antiossidanti di cui è ricco, rimane una concentrazione altissima di grassi, di cui è altrettanto ricco. Diventa un alimento tossico; un alimento “morto” che fa morire le cellule del pancreas. Un alimento innaturale, modificato pesantemente.
Furono gli inglesi che cominciarono ad importarlo nell’ottocento: lo usavano per lubrificare le macchine industriali e ci facevano il sapone. Costava veramente poco, dato che si produceva nelle loro colonie con il lavoro dei loro “schiavi”, o meglio, degli abitanti dei paesi loro schiavi.
Oggi, all’ormai superato apice dell’Impero Globale, l’olio di palma è nelle merendine dei bambini, nei biscotti, in tutti i dolci industriali. Viene usato come “olio vegetale” da tutta l’industria alimentare. Viene usato per friggere e per arrostire nei ristoranti di lusso e nelle mense. Viene usato dall’industria cosmetica.
E sempre sullo stesso fondale: governi corrotti di paesi dominati vendono le terre dei loro popoli alla rapacità di compagnie locali mafiose, che fanno in loco il lavoro sporco per le multinazionali dell’Impero. E poi ci siamo noi, umanità demente.
Siamo noi, che ai nostri figli non diamo più merende ma “merendine”; noi che li ingozziamo e ci ingozziamo di merda tossica ogni giorno. Che ci laviamo i capelli con schiumogeni cancerogeni; che ci schiaffiamo in faccia creme e prodotti coloranti, inseguendo l’idea di bellezza e gioventù che una società di competizione e dominio ha inculcato nei cervelli di donne succubi, di maschi che competono e cercano potere anche nel sesso.
Dal 1990 al 2007 solo in Indonesia sono stati distrutti ventotto milioni di ettari di foresta. E’ una cifra che non riusciamo a comprendere; è un territorio immenso, poco meno di tutto il nostro paese. Un territorio di foresta grande come l’Italia e molto più popoloso. E tutti i suoi popoli periscono assieme alla foresta. Elefanti e serpenti, oranghi e tigri, cervi e uccelli, alberi e arbusti, e uomini. Nelle foreste del Borneo gli esseri umani vivevano all’unisono con tutte le altre vite. Senza mai rompere la rete, senza squilibrio, senza ignoranza, senza infelicità.
Ma le nostre merendine, i nostri sciampi e rossetti, le nostre cene al ristorante, i nostri consumi inutili li stanno disintegrando, schiacciando, polverizzando, assieme ai loro alberi. Tutte le donne, i bambini e gli uomini che vivevano nelle foreste indonesiane vengono uccisi o scacciati. Chi sopravvive è destinato a diventare uno dei tanti “lavoratori” sfruttati in modo indegno dalle nostre industrie, cioè dalle industrie che si nutrono della loro miseria e dei nostri consumi. Chi uccide gli alberi distrugge fisicamente e moralmente anche gli esseri umani.
SVUOTARE LA CORNUCOPIA
Dioniso, dio delle selve, veniva spesso rappresentato con in mano la Cornucopia: un corno di animale pieno di frutta e fiori. E così Cerere, dea delle messi e dell’agricoltura.
La parola “cornucopia” è diventata sinonimo di abbondanza illimitata. La Madre Terra ci ha elargito quell’abbondanza per tutta la nostra storia; spontaneamente fino a che siamo stati raccoglitori-cacciatori (e c’è chi lo è rimasto e quasi sempre dove la terra è più generosa: nelle foreste pluviali); con la nostra oculata e comprensiva partecipazione quando e dove siamo diventati agricoltori. L’essere umano selvaggio e quello contadino hanno riempito di frutti il corno traboccante e inesauribile.
L’essere umano della società di dominio, e infine della società industriale-consumistica lo sta esaurendo. Sta avvelenando i frutti, svuotando il corno.
Ogni anno, su questo pianeta che era la nostra cornucopia, dodici milioni di ettari di terra diventano deserto. Dodici milioni di ettari sono tre volte il territorio della Svizzera. Quanti anni ci vorranno per uccidere noi stessi e la Terra Madre? Senza quello “sposo” che è la vegetazione, anch’essa muore.
L’avidità bellicosa assieme al desiderio di assoggettare tutto ciò che esiste è il motore della nostra società.
In Australia gli aborigeni sono vissuti per almeno quarantamila anni, e non hanno mai messo in pericolo la vita: hanno vissuto al suo interno come un filo nella trama. In duecento anni i colonizzatori occidentali hanno distrutto due terzi del paese: un paese che era una cornucopia è diventato deserto, cioè morto o moribondo. E naturalmente hanno distrutto anche gli aborigeni. Quelli che non hanno ucciso, e ne hanno uccisi tanti, li hanno sradicati come i loro alberi: hanno devastato le loro anime, ucciso la loro cultura; li hanno resi miserabili profughi senza speranza.
Perché l’uomo di guerra e progresso ha paura delle foreste e ha paura degli uomini che ci vivono: ha paura della propria estraneità alla vita e di tutti coloro che la testimoniano. Ha paura e vergogna delle prove dei suoi sacrilegi.
“Intorno a me l’erosione ha devastato le terre non ancora assestate, ma l’uomo soprattutto è responsabile dell’aspetto caotico del paesaggio. Si è dapprima dissodato per coltivare, ma dopo qualche anno il suolo esaurito e dilavato dalle piogge non consentiva più la coltivazione del caffè. Le piantagioni si sono allora trasferite più lontano, dove la terra era ancora vergine e fertile. Ma fra l’uomo e la terra si era stabilita questa specie di reciprocità che, nel mondo antico, ha dato origine a quell’intimità millenaria durante la quale si sono adattati l’uno all’altra. Qui il suolo è stato violato e distrutto. Un’agricoltura rapinatrice si è impadronita di quel giacimento di ricchezza, e dopo averne approfittato, si è trasferita altrove… l’attività dei pionieri… devastando il suolo con la rapidità con cui lo dissodano… morde da un lato il suolo vergine, mentre abbandona dall’altro solchi estenuati… in cento anni la fiammata agricola ha attraversato lo stato di San Paulo. Accesa a metà del XIX secolo dai “mineiros” che abbandonavano i loro filoni inariditi, si è spostata da est ad ovest aprendosi un passaggio attraverso un groviglio confuso di tronchi abbattuti e famiglie sradicate." (Lévi Strauss- “Tristi tropici”)
Un altro continente, gli stessi risultati da parte di una colonizzazione che ha spostato masse di diseredati dall’Europa a paesi selvaggi e intatti. Masse di diseredati che hanno aperto la strada allo sfruttamento intenso e senza limiti di territori vergini, benché abitati da decine di millenni.
Oggi in America Latina ci sono solo gli uomini “primitivi” ad opporsi al genocidio di massa che è la distruzione della foresta amazzonica. Assieme a quei pochi che, in tutto il mondo, considerano ancora sacra la vita, e dunque sono in grado di riconoscere l’orrore della morte senza rinascita che la società di gpr sta spandendo sul nostro pianeta.
GLI SPIRITI DELLA FORESTA
E’ straordinario che ancora si raccontino le fiabe ai bambini. Forse dipende solo dal fatto che i bambini continuano ad esserne affascinati, come lo sono stati i loro genitori e prima i loro nonni e bisnonni. E quelle fate, quelle bacchette magiche che compiono prodigi, che fanno scaturire dal nulla l’abbondanza. Purché si rispettino certe regole.
Le fate, gli elfi, gli gnomi e i folletti; gli spiriti della foresta, del prato e del campo: piccole e grandi anime di piccole e grandi creature. Tutti gli esseri magici delle fiabe non sono altro che una personificazione della magia della vita, sono gli esseri divini che le antiche religioni adoravano. Le divinità si sono trasformate in personaggi di racconti per bambini.
Il principe di Biancaneve e della Bella Addormentata, che risveglia col suo bacio la fanciulla dormiente, non era altro che il dio della vegetazione: Dioniso, Bacco, Attis, The Green Man; colui che col suo seme risveglia la giovane terra primaverile dal sonno invernale. Un sonno di morte ma destinato a rinascita.
E’ straordinario che gli esseri umani, dopo migliaia di anni di civiltà di morte, nascano ancora con questi sentimenti ancestrali di adorazione per gli esseri immaginari che rappresentavano gli spiriti della natura, e che conservino questi sentimenti per una parte della loro infanzia.
“E’ vero che nel bosco ci sono i folletti?” mi chiedeva speranzoso un amichetto di mio figlio una ventina di anni fa, ed era pronto a crederci, e l’idea della loro invisibile presenza era per lui fonte di inattaccabile felicità. Lo so con certezza, come potrebbe saperlo chiunque, perché tutti siamo stati bambini.
E tuttavia la civiltà umana del ventunesimo secolo sta storpiando, oltre che la memoria degli adulti, l’anima dei bambini. Un’assoluta novità nel cammino del progresso.
Tutti i moderni mezzi tecnici, le ultime macchine realizzate dall’uomo del dominio, televisore, computer, telefono cellulare, sono adatte a modificare l’essenza stessa dell’anima umana in una maniera molto semplice: staccandola definitivamente dalla natura e dalla vita. Chissà dunque se gli odierni e i futuri bambini (ma il futuro sarà corto, se noi esseri umani non invertiamo la rotta) saranno ancora dotati della capacità antica, così antica da essere innata, di “sentire” le anime della foresta, del bosco, del fiume, delle stelle. Che vuol semplicemente dire percepire la vita nella sua completezza.
Il bambino desiderava ancora salire sull’albero, nascondersi nel cespuglio, raccogliere fiori, correre e far capriole nei prati, sguazzare nei ruscelli.
E non abbiamo tutti sognato la casa sull’albero? Da bambini perché poi, crescendo, la cultura della nostra società soffocava e confondeva le esigenze naturali, creando obblighi ed esigenze artificiali che ci snaturavano. Ci separavano da noi stessi e nascondevano ai nostri occhi e alle nostre sensazioni tutto ciò che ci circondava. In fretta dovevamo correre verso un futuro di obiettivi e conquiste vane, rese più reali della realtà, nelle nostre menti, dai moderni mezzi di persuasione (detta “comunicazione”) di massa.
Ma la società odierna ha imposto obiettivi e conquiste vane anche ai bambini: un esercito di consumatori che non poteva essere lasciato nel limbo. Un esercito di futuri automi senza anima e cervello che era importante addestrare. I nuovissimi mezzi digital-elettronici di demenza di massa, di alienazione totale e succube, attirano e snaturano i bambini molto più di qualsiasi fantastico paese dei balocchi.
Così, forse, fate e folletti sono morti, come temeva Campanellino. Mentre i loro protetti, alberi e piante, vengono uccisi in massa ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, con noncuranza.
Gli studiosi hanno ormai potuto stabilire con certezza scientifica che le piante sono intelligenti. Hanno capacità di interagire con l’ambiente, hanno memoria, comunicano tra di loro, adottano strategie di difesa della specie e di adattamento. Ci sono scienziati che le studiano da decenni in Giappone, in Germania, in Russia, in Francia, in Tailandia e in chissà in quanti luoghi ancora. Nei loro studi hanno tra l’altro verificato che le piante reagiscono, per esempio, ai suoni: tali reazioni sono per gli scienziati inspiegabili, perché non riescono a comprenderne lo scopo. Con laboratori super attrezzati, stanze in cui ricreano il giorno e la notte, speciali frigoriferi, microscopi potenti, rilevatori elettromagnetici e via dicendo e studiando e verificando, sono arrivati alle stesse conclusioni degli indigeni primitivi di tutto il mondo, che chiedevano perdono a un albero prima di tagliarlo.
Chiedevano al suo spirito di perdonarli, convinti che lo spirito sopravvivesse all’albero, ma non fosse certo contento di veder finire anzitempo la propria parte materiale.
Forse quegli indigeni primitivi avrebbero anche saputo spiegarci perché le piante reagiscano ai suoni. Se li avessimo ascoltati, se li avessimo lasciati parlare.
Ma, se fossimo capaci di “ascoltare”, lo sapremmo anche noi.
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