Una bambina selvaggia, timida e ribelle, che vede le anime dei morti. Un bambino gentile, dolce e arguto. Una madre pigra e ambiziosa, un padre nevrotico, concentrato nella scalata sociale.
Quella primavera imparai ad andare in bicicletta. Me la regalò la nonna e per imparare mi portava al parco Sempione. La nonna non aveva l’automobile. La mia bicicletta stava a casa sua, in via Santa Maria alla Porta. I primi giorni andavamo a piedi al Castello tenendo la bici per il manubrio; lì la inforcavo e attraversavamo il cortile del Castello fianco a fianco. I rondoni sfrecciavano gridando, le loro grida echeggiavano tra le alte mura; c’era sempre gente che passava nel cortile scalpicciando sui ciottoli e le lastre di pietra. Ogni rumore era netto, quieto e familiare.
Ma fu la bebisitter Francesca a darmi la spinta finale. Ogni tanto uscivamo tutte e tre assieme.
Credo che per i bambini l’indifferenza non esista; qualche volta c’è la noia che le assomiglia, ma in realtà è solo un raccogliersi dell’anima, un’attesa. Le persone sono simpatiche o antipatiche, la vita è divertente e gioiosa o triste e dolorosa.
Quando stavo con mia madre e mio padre la vita era triste, i primi anni piena d’ansia e d’insoddisfazione; era una vita affamata e inquieta. Poi il dolore divenne sordo e calmo. Credo che somigliasse al dolore che prova chi ha perso un arto: all’inizio fa male come se ci fosse ancora, come se te lo stessero sempre strappando; poi la tua anima si convince di non averlo più e lo dimentica ma si sente sempre mutilata.
Però quando ero con i nonni, poi con la sola nonna, ritornavo libera e intera, non mi mancava niente. Ed ero felice.
Se con noi c’era anche qualcun altro che amavo e che mi amava, la vita, oltre che gioiosa, diventava ridondante come una tavola imbandita con ogni bendidio. Così qual giorno al parco con la nonna e Francesca.
Ricordo che attraversavamo il cortile, io, sulla bicicletta ancora con le ruotine posteriori, ero un po’ più avanti, loro due alle mie spalle chiacchieravano ad alta voce. Non c’erano altre voci, solo quelle dei rondoni: un piccolo stormo volava a grande velocità sfiorando i muri del castello e strillando. Giocavano. Alzai il volto a guardarli e mi sembrò di sprofondare nel cielo, come se fosse un mare e mi attirasse. Le voci dei rondoni e quelle delle due donne mi parvero far parte di un unico canto, come se Francesca, mia nonna e i rondoni si conoscessero e si chiamassero gioiosamente, tanto per riempire l’aria di suoni. C’erano anime nel cortile del Castello e sentirono quello che io sentivo. C’erano anime anche nel cielo, anime forse di rondoni che sfrecciavano insieme ai vivi, ma non badarono a me.
Quando fummo nel parco, sull’asfalto dei viali mi misi a correre o così mi sembrava: il mondo mi correva incontro a gran velocità, soprattutto nella discesa verso il laghetto; era una sensazione inebriante. Poi Francesca mi fece scendere e alzò un po’ le ruotine.
– Ora vai, non puoi cadere: se ti fermi o traballi appoggerai sulle maledette ruotine, ma se pedali bella dritta e guardi avanti, non ti serviranno. –
Pedalai bella dritta guardando un orizzonte lontano, sentendomi coraggiosa e indipendente e con un mondo infinito tutto davanti a me. Togliemmo le ruotine e fui festeggiata per la grande, indimenticabile impresa che è imparare ad andare in bicicletta.
La nonna quella sera ci accompagnò a casa.
– Silvana, dì alla mamma cosa hai fatto oggi. –
Mi dispiaceva per la nonna, perché sentivo la sua inquieta sofferenza quando ci vedeva insieme, ma non riuscii lo stesso ad accontentarla; alzai le spalle, corsi ad abbracciare Francesca che se ne andava.
– Cosa ha fatto? – chiese mia madre.
– Ha imparato ad andare in bici senza le ruotine! – disse allegramente Francesca col suo vocione – E correva come una lippa, anzi due! –
Io risi e guardai la nonna, anche lei sorrise. Il nonno le stava accanto e mi sembrò malinconico, eppure quel pomeriggio era stato felice come me. Allora guardai mia madre che disse: – Ah, che brava! – e mi fissò pensierosa, come se non mi conoscesse.
Era solo perché stava pensando ad altro.
Mi dispiacque per la nonna, che ci restò male.
Quella sera rimase a cena. Non succedeva spesso, di solito una volta la settimana. Non mi faceva piacere, non del tutto. Ero contenta che lei rimanesse lì, vicino a me, assieme al fantasma del nonno, però mi sentivo tesa e ansiosa per tutto il tempo. Mia madre e mio padre non vedevano l’ora che se ne andasse, erano gelosi di noi, la punzecchiavano o l’ignoravano, mi rimproveravano più spesso del solito.
Prima, quando c’era anche il nonno, era diverso; di fronte al nonno si sentivano in soggezione. Qualche volta era diverso anche quando non c’era mio padre, come se a un certo punto mia madre si placasse.
Quella sera mio padre arrivò abbastanza presto. Era contento. Abbracciò mia madre e la baciò sulle labbra ridendo: – Siamo dentro l’affare! – le disse e gli occhi gli brillavano.
Anche Giulia rise e stava per chiedere qualcosa ma lui le fece segno “dopo”.
– Buonasera, Luisa! Resti a cena? –
Era addirittura allegro e gentile con la nonna, cominciai a rilassarmi e lei pure.
La nonna lo ringraziò, chiese se il lavoro andasse bene.
– Puoi ben dirlo! – e già c’era una sfumatura di aggressività nella voce, come se si mettesse sulla difensiva. Intanto si precipitò in bagno.
– Raccontagli di oggi. – mi esortò la nonna.
– Lo sai che questa cavalletta oggi ha imparato ad andare in bici? –
– Meno male che qualcosa impara. Magari un giorno imparerà anche a suonare il pianoforte. –
La nonna mi guardò, io sorrisi, lui si era precipitato nel suo studio. Lei cercò ancora di seguirlo. Era una combattente.
– Che è negata ma che bisogna insistere. –
– Non te lo dico nemmeno, Luisa, ma se c’è una speranza… Non ce ne sono di migliori sul mercato. –
– E chi lo sa? – mio padre rise di gusto – Bisognerebbe chiederlo alla cavalletta! –
Finalmente si decise a guardarmi, mentre si sedeva in poltrona.
Poi prese il giornale e l’aprì.
– Allora, che cosa dici a tuo papà? – la nonna mi fissò severa.
– Ecco, non lo sa. E’ la sua risposta preferita. – disse lui e rise, ma già meno allegramente.
Mise giù il giornale, gridò a mia madre: – Giuli, ci stai preparando qualcosa di buono? – e si alzò e si precipitò in cucina.
Questa volta decisi di precipitarmi anch’io: ad abbracciare la nonna. Che mi strinse, mi baciò sui capelli, poi mi respinse e mi guardò scuotendo la testa con disapprovazione. Io la riabbracciai ridendo e lei disse: – Aveva ragione il nonno, sei una bestiolina selvatica… sei come gli scoiattoli. –
Mio padre, la nonna non lo contraddiceva quasi mai. Lo ascoltava e gli faceva qualche domanda, mentre a volte contraddiceva mia madre.
Non parlò mai male dei miei genitori in mia presenza. Di mio padre non parlava proprio, se non quando ero io a tirarlo in ballo. Ma succedeva talmente di rado, come se Andrea e Giulia fossero per me già fantasmi.
Quella lunga primavera la ricordo bene, successero tante cose. Cose importanti solo per una bambina.
Mio padre e il suo socio erano nell’affare. Un affare di continue telefonate al cellulare, di riunioni notturne, di cene con personaggi importanti in ristoranti costosi. Spesso dormivo dalla nonna, spesso era Francesca a mettermi a letto.
La casa della nonna aveva un balcone lungo e stretto pieno di piante e fiori; c’erano anche la menta e la maggiorana. Il suo appartamento era al quarto piano, guardava su una stradina stretta ed era più in alto della casa di fronte: così potevo vederne il tetto, i comignoli, i piccioni e le cornacchie che sussiegose zampettavano o volavano sulle antenne. In casa della nonna c’erano pavimenti di legno scricchiolanti, vecchie piastrelle arabescate. Non c’era niente di lucido e le porte avevano i vetri smerigliati. C’era un armadio a muro con la maniglia ovale d’ottone e molti ripiani pieni di scatole di cartone a fiori, di latta, di plastica colorata. La casa della nonna era una fonte di curiosità, perlustrazioni, scoperte inesauribili.
Francesca mi raccontava storie terribili di orchi e orchesse, di streghe e matrigne, di incantesimi maligni, di fantasmi. Mi piacevano molto. Anche quelle di fantasmi, perché non avevano niente a che fare coi fantasmi veri, erano quindi fiabe fantastiche e mi trasportavano in un mondo fantastico in cui tutto poteva succedere. Quando mi dava la buonanotte e usciva dalla stanza spegnendo la luce, restavo con gli occhi spalancati nel buio di una foresta incantata o di una prigione segreta, finché il sonno non li chiudeva.
La mia vita era migliorata, da quando mio padre era nell’affare. Nessuno badava nemmeno più ai miei miseri progressi al pianoforte.
Ma successe una cosa. Una cosa importante solo per una bambina e che mi sprofondò di nuovo nel rimpianto. Almeno per un po’.
Avevano deciso di comperare una casa a C. e quella volta dovettero portare anche me. La nonna non c’era, credo fosse andata a Ferrara a trovare le sue sorelle; Francesca stava preparando un esame importante, non poteva fare la bambinaia a tempo pieno. Dopotutto avevo una madre e un padre.
C’era da vedere una casa “prestigiosa”, un vero affare. Quella sarebbe un sogno, aveva detto mia madre. Partimmo il sabato, alle sei di mattina; dormii per tutto il tragitto. Mi ricordo il sedile ruvido dell’auto sotto la guancia, il rumore dei camion che sorpassavamo, le loro voci e il sonno che andava e veniva, nel quale mi rituffavo come un pesciolino che si ritrovi improvvisamente fuori dall’acqua.
Nell’albergo in cui alloggiammo c’era una ludoteca; io passai la giornata in quella grande stanza piena di giochi, con una ragazza annoiata che faceva i puzzle assieme a me, mentre io annoiata cercavo di non deluderla. Non c’erano altri bambini. Era la fine di ottobre e pioveva. I miei andarono senza di me, che mi sarei soltanto annoiata, a vedere due case che erano un vero affare, tenuto conto delle posizioni uniche e del prestigio delle dimore.
Il giorno dopo, però, la ragazza annoiata non c’era. Il maitre si scusò dicendo che era indisposta e che, data la stagione e il poco movimento, non avevano previsto una sostituta. Così mi dovettero trascinare con loro, prima in centro a vedere i negozi e a prendere l’aperitivo, cioè a guardare i grandi che prendevano l’aperitivo mentre io, con una cannuccia molto elegante e in un bicchiere alto di cristallo, mi sorbivo un succo di frutta che faticavo a mandare giù, e infatti ne lasciai metà nel bicchiere. Questo diede a mia madre l’occasione di notare e far notare ancora una volta a mio padre, e indirettamente a me, che io dovevo comportarmi sempre diversamente da tutti. Quel mezzo succo di frutta rimasto nel bicchiere fu come se mi fosse invece rimasto sullo stomaco con tutto il bicchiere.
Dopo pranzo andarono a ronzare intorno alle case viste il giorno prima. E io dietro. Parlavano dei pregi e difetti di ognuna, erano contenti; mia madre teneva le mani nelle tasche della nuova giacca a vento, aveva le guance rosse per il freddo. Ricordo un grande larice color oro nella luce fredda del pomeriggio, come una fiammata prodigiosa, vicino a una di quelle case ai margini del paese: una villa di due piani in pietra grigia, coi balconi in legno e il tetto in pietra nera.
– Questa è più bella. – dissi.
Era per il larice, la sua luce. Sperai che scegliessero quella casa, lo sperai con tutto il cuore, come se quella grande fiamma dorata in mezzo a un prato ancora verde fosse la vera casa che mi aspettava.
Mia madre si voltò verso di me e disse: – Guarda come sei pallida! – e si avvicinò – Hai freddo? – mi chiese, mentre mi tirava su la cerniera della giacca a vento, che era già tirata su, e mi tirava giù il berretto di lana, che era già tirato giù.
Poi mi pizzicò le gote, dicendo: – Anch’io ero sempre pallida, da piccola. Mia mamma, quando andavamo da qualche parte, prima di uscire di casa mi pizzicava le guance… così… Così erano belle rosee, per dieci minuti. –
Lo diceva a mio padre ma anche a me e mi pizzicava con delicatezza. Mi faceva un po’ male ma non ebbi neanche per un attimo la tentazione di sottrarmi.
– Andiamo a fare una passeggiata, – disse mio padre – così ci scaldiamo. – e cominciarono a camminare di buon passo sulla strada che andava verso la foresta.
Mia madre mi aspettò e mi prese per mano. Salivamo e ci allontanavamo dalle case, poi svoltammo in un sentiero tra gli abeti e la luce si oscurò, poi uscimmo tra i prati. Stringevo la mano di mia madre, era calda. Davanti a noi c’era una distesa di erba corta, bagnata e lucida, e poi qualche betulla bianca e dorata sullo sfondo scuro degli abeti. Sulle cime c’erano spruzzi di neve che stava scomparendo, sommersa dalle nuvole che scendevano veloci. In un attimo l’abetaia arrampicata sul pendio della montagna divenne evanescente; la nube avanzava coprendo gli alberi sotto una spessa coltre bianca e vaporosa. Camminando, mio padre disse: – Guarda, guarda le nuvole che arrivano! – e ci fermammo.
La montagna cambiava aspetto e colore, il vapore avanzava e faceva impallidire tronchi e foglie delle betulle, poi si allungò sul prato e ne sentii l’odore che giungeva veloce, un odore un po’ stantio come di vecchie case umide; un odore di nido e di nicchia, di vecchia coperta appena uscita da un baule. Mio padre mi prese per mano, mentre i primi lembi di nuvole arrivavano fino a noi. Come se avesse paura di perdermi nella nebbia.
E ce ne stemmo lì tutti e tre per un minuto, fermi a guardare la nuvola che copriva prato e bosco e ci avvolgeva nel suo cammino, e in quel minuto, con le mie mani tenute nelle mani di mio padre e mia madre, io provai un sentimento familiare e dimenticato, che riemergeva e mi sommergeva come la nuvola: sentii che noi tre eravamo una cosa sola e ci appartenevamo, sentii che vedevamo con gli stessi occhi e provavamo le stesse sensazioni. Per un minuto fui così felice che mi sembrò che il mio cuore traboccasse e si spandesse sul prato e le montagne come vapore soffice.
Mia madre disse: – Torniamo giù, senti che freddo sta arrivando. – e ci girammo, mio padre mi lasciò la mano e poi la lasciò mia madre, mentre prendevamo la via del ritorno al paese, anche noi resi dalla nebbia pallidi ed evanescenti.
Quello fu anche il giorno in cui vidi per la prima volta un suonatore di fisarmonica. Forse fu anche la prima volta che udii il suono di quello strumento, ma non ne sono sicura. Eravamo tornati a gironzolare nel centro, le vetrine dei negozi erano già illuminate; ci inoltrammo incuriositi in una stradina secondaria, deserta e ormai quasi buia: il suono di una musica veniva dalla porta spalancata di un caffè, qualcuno cantava; ci affacciamo a guardare. C’erano quattro o cinque persone, ridevano; c’era un piccolo palco, un ragazzo suonava e poi si interruppe, il barista gli chiese una canzone dal titolo francese. Credo stessero facendo le prove per la sera. Mi ricordo il barista, allora mi sembrò vecchio perché aveva i capelli bianchi, erano tagliati a spazzola; portava un cerchietto d’oro all’orecchio, aveva una fossetta sul mento e gli occhi chiari come vetro. Ma non per questo lo ricordo, mi colpì per un nonnulla, per l’allegria della sua voce forte e calda. E poi perché, vedendomi sulla soglia, mi fece l’occhiolino e, senza indugio, anch’io glielo feci. Credetti allora che tra lui e me ci fosse un’intesa segreta, che fosse una specie di mago e avesse capito tutto. Tutte le cose che non si dicono perché non hanno nome e che i grandi non sanno.
– Forza, giovane! – disse al ragazzo della fisarmonica.
Lo disse per me, per accontentarmi.
Il ragazzo chinò la testa sullo strumento, piegandola un poco di lato; allargò i gomiti e sembrò che volesse rassicurare, esortare la musica, convincerla ad uscire nel mondo senza paura. E senza paura la musica uscì. In frotta. Era una musica come una folla che si riversasse fuori correndo e cantando per gioia o per furia, per coraggio o dolore o rabbia. Il ragazzo suonava e la musica riempiva tutto: il bar, l’aria, i pensieri, il cuore e il ventre. Non c’era riparo da quella musica, ti portava via come un fiume che straripa. Ed era una musica allegra e triste nello stesso tempo. Mi assomigliava.
Nessuno teneva più la mia mano, però riuscii lo stesso a dire: – Mi piacerebbe imparare a suonare la fisarmonica. Mi piacerebbe più del piano. –
Mio padre fece un verso tra lo sbuffo e il grugnito, e disse senza guardarmi: – E’ uno strumento da zingari. – poi alzò le spalle e si voltò per andarsene e mia madre lo seguì.
Il barista mi osservava, gli feci ciao con la mano, lui mi strizzò di nuovo l’occhio ma il suo sguardo adesso era triste e con sguardo triste lo ricambiai.
Non parlai più della fisarmonica coi miei genitori. Mai più.
Quel giorno soffrii ancora come un tempo, mentre tornavamo all’albergo tentai di dare la mano a mia madre ma lei me la lasciò dopo tre secondi. Parlavano tra loro, delle case, dell’affare; ridevano, facevano progetti. Lui di punto in bianco mi chiese: – Ti piacerebbe, Silvi, avere un cavallo, un cavallo tutto tuo? –
Forse la domanda fu troppo inaspettata, risposi: – Non so. –
Fece una risata, una vera risata, divertita, ma sprezzante, sarcastica: – Non saaa! Ma cos’è che sai, eh? C’è qualcosa che sai? Se alla tua età mi avessero fatto anche solo balenare la possibilità di avere un cavallo, mi sarei messo a fare i salti mortali per la gioia! –
Ricordo che mi fermai, misi le mani in tasca e lo fissai in silenzio per un tempo che a me sembrò lungo. Lo guardavo come se fosse lontano e senza importanza.
– Allora compratelo per te, il cavallo! – dissi.
– Ecco, credo proprio che farò così. –
Non mi vedeva nemmeno, continuava a camminare dandomi le spalle. Mia madre si era fermata ad aspettarmi: – Andiamo, scemetta. – disse.
Ma non allungò la mano verso di me.
Oggi penso che quel “non so” lo dissi per sfida. Avere un cavallo era uno dei miei sogni, uno dei desideri più grandi. Credo che lo sia per ogni bambino. Avrei voluto anch’io fare i salti mortali dalla gioia, quando me lo chiese, ma non potei. Qualcosa mi tratteneva, mi legava e imbavagliava. Era una necessità estrema, la necessità di metterlo alla prova.
I miei genitori credevano che fossi inappetente. E infatti lo ero, con loro. Mi piaceva il pane nero, le frittate, le carote, il riso al burro; mi piacevano le mele, i pomodori, le patate, i carciofi crudi e le uova alla coque. Non mi piacevano i dolci e mi facevano schifo la carne e il pesce, tranne le polpette e la cotoletta impanata. Dei dolci amavo solo l’uovo allo zabaione che mi preparava la nonna, ma lei riusciva a farmi mangiare qualsiasi cosa: aveva pazienza e fantasia; i suoi racconti sul cibo, su come era stato coltivato e cucinato, riuscivano ad appassionarmi anche al minestrone e alle cipolle lesse.
Fu a lei che raccontai della fisarmonica.
Erano passati mesi ma in quei mesi ci avevo pensato spesso. Le immagini della stradina, del bar, di quegli uomini che scherzavano come se sapessero qualcosa che gli altri non sapevano, del barista che mi strizzava l’occhio, mi avevano accompagnato come un portafortuna.
Le dissi del suonatore dentro il bar e della musica.
– Era bello come andare in altalena. – dissi.
Camminavamo in via San Giovanni sul Muro, tornavamo a casa dal Parco; allargai le braccia tenendole un po’ piegate, come se abbracciassi la fisarmonica, e cantando mi misi a saltellare e roteare. Avevo un vestitino bianco e azzurro e un golfino azzurro; mia madre non badava a spese per i miei abiti, così come per i suoi, ed io avevo cominciato ad accorgermi che erano diversi da quelli delle altre bambine. La gonna del vestito si allargava a campana mentre io giravo su me stessa.
– Sembri un fiore. – disse mia nonna, e due signore che passavano dissero: – Guarda com’è felice! –
– Sente la primavera, come gli uccellini. – e sorrisero a mia nonna.
In quel momento fui davvero completamente felice, come gli uccellini.
Poi la nonna mi spiegò che dovevo imparare a suonare bene il pianoforte, e ciò mi avrebbe permesso più tardi di suonare bene anche la fisarmonica.
– Hanno tutt’e due i tasti, dopotutto, – disse – devi solo imparare bene la musica. –
Poi mi diede una pacchettina sulle spalle: – E devi irrobustire queste alucce da pipistrello e queste zampe da cavalletta: bisogna essere forti per suonare la fisarmonica. –
Mia nonna non sapeva nulla di fisarmoniche e di pianoforti ma comprendeva la vita. Mi disse che dovevo sopportare il pianoforte.
– Quella maestra non è simpatica, lo so. Prendila come una medicina amara; la musica ti ricompenserà, vedrai… La musica è come la poesia, ti fa sentire qui dentro tutto il mondo. –
Si era messa una mano sul cuore e mi guardava seria.
– Il mondo, Silvana, è tutt’intorno, grandissimo, ma è anche tutto qui, a portata di mano: è la vita. La vita è sempre uguale, lontano o vicino, solo che le persone sono distratte, nervose e infelici: corrono, litigano, la vita non la vedono più. Ma chi sente la musica proprio dentro l’anima, sente tutta la vita: è felice. –
Io l’ascoltavo col fiato sospeso, cercavo di capire, perché mi stava svelando un mistero.
– La poesia è vasta, – e allargò le braccia – è profonda, densa… – e avvicinò le mani, sembrava che tenesse con cautela un uccello caduto dal nido – come la musica. –
Stavo per domandare ancora qualcosa ma poi dissi: – Come le anime dei morti. Loro capiscono tutto, tutta la vita. –
Aggrottò la fronte, mi fece una carezza in viso scrutando i miei occhi scuri.
– Può darsi. – disse, e poi chiese, abbassando la voce e chinandosi: – Ma sono felici, le anime dei morti? –
– Certe sì e certe no, certe sono tristi ma non tanto. –
Non le parlai delle anime inquiete che mi sussurravano i loro messaggi inutili e mi costringevano ad accendere la televisione. Erano così poche e mi facevano così pena, e sapevo che si sarebbe spaventata.
– E il nonno? – mi sussurrò vergognandosi.
– Il nonno è più contento di prima. – risposi.
Si mise a ridere, mi scompigliò i capelli. Due ragazzi passavano discutendo ad alta voce, seri e animati; ci guardarono di sfuggita, incuriositi. Uno era magro, coi capelli ricci e gli occhiali; l’altro aveva i capelli lunghi e un po’ di barba. Me li ricordo perché dissi loro: – Ciao, ragazzi! – con molta enfasi e loro risposero: – Ciao! – con altrettanta enfasi e si misero a ridere.
La nonna mi prese per mano e disse: – Sei una pupattola davvero straordinaria. –
Sopportai il piano, sopportai la maestra di piano. Continuavo a non essere una brava allieva, imparavo lentamente…….