Una bambina selvaggia, timida e ribelle, che vede le anime dei morti. Un bambino gentile, dolce e arguto. Una madre pigra e ambiziosa, un padre nevrotico, concentrato nella scalata sociale.
Mia madre, prima di sposarsi, aveva tentato la carriera di fotomodella. Per qualche anno aveva lavorato con un certo successo, la sua bellezza era indiscutibile e molto fotogenica, ma lei era troppo pigra e forse anche troppo intelligente e disincantata per illudersi e per darsi da fare sgomitando o vendendosi. Rimanevano le sue foto nello studio di mio padre, foto che da piccola non amavo perché mostravano una Giulia irriconoscibile: una Giulia che non era mia madre, una Giulia quasi sinistra nei suoi sorrisi sensuali e invecchiati. L’ultimo servizio fotografico lo fece quando era incinta di me, e una di quelle foto era appesa nella loro camera da letto. Era molto bella, sembrava che non avesse trucco sul viso dolce e giovanissimo, dall’espressione sbarazzina. Eppure non amavo nemmeno quella foto, nonostante ci fossi io dentro l’evidente rotondità della pancia: anche quella foto era falsa, mia madre non aveva mai avuto con me una tale fresca dolcezza.
Così pensavo e sentivo, da bambina. Anche se poi mi sono spesso domandata se prima, prima dei miei ricordi e della mia coscienza, quando ero davvero in quella pancia o quando ero piccolissima, Giulia non sia stata una tenera, giovane madre, nonostante la sua pigrizia e il suo egoismo. Se no, perché l’avrei amata con tale trasporto nei miei primi anni di vita?
Mia mamma si vantava di non farmi vedere la televisione ma ero io che non volevo vederla.
Ricordo bene quel giorno, credo di aver avuto tre anni, comunque non avevo compiuto i quattro: uno di quei ricordi della prima infanzia che spiccano nitidi in un passato nebuloso. Ancora non mi ero rassegnata, ancora cercavo la sua compagnia e il suo amore; ancora sentivo giorno e notte quel dolore che dalla testa scendeva fino alla pancia e stringeva soprattutto nella gola e nel cuore, come l’artiglio di una bestia che mi strizzasse senza mai riuscire a divorarmi. Si placava solo quando nel mio letto stringevo a me l’orsacchiotto Timoteo e gli baciavo la testa dicendogli: – Non aver paura, ci sono io. –
Mia madre stava per uscire, doveva essere inverno perché faceva già buio ma io ricordo che era solo pomeriggio, e poi perché infine indossò il giaccone di panno rossoscuro che mi piaceva tanto. Mia madre era bella, aveva capelli castani ondulati e dai riflessi rossi, come i miei; aveva i miei stessi inquietanti occhi neri. Io l’amavo senza condizioni e vedevo in lei la perfezione, ed ero molto infelice. Ma quella sera fu l’inizio della fine.
Stavo giocando con la bebisitter, mi sembra fosse un gioco con delle casette di legno colorate, quando mi accorsi che si preparava per uscire.
– Devo fare delle compere, torno subito. –
– No, Silvi, ho fretta, devo correre, non puoi venire. Stai qui con la Cristina, gioca con lei. –
La Cristina, ricordo, sorrideva guardandomi ma era un sorriso falso. Lei odiava mia madre.
Ero piccola, ancora non pronunciavo la g.
– Perché io devo correre e tu non puoi starmi dietro con quelle gambette corte. –
Si mise a ridere, era scocciata ma non troppo.
Lei si stava cambiando e non mi dava più retta.
– Corro anch’io, mammina, corro forte come te! –
Oggi mi sembra impossibile di averla chiamata un tempo “mammina”.
Poiché mi aveva chiamata “tesoro” provai un impeto di gioia e gratitudine, sperai ancora una volta di raggiungerla, sentii l’artiglio aprirsi e il mio cuore libero che si espandeva. Corsi da Cristina, le chiesi di vestirmi per uscire, ma lei mi abbracciò e mi disse di aspettare un attimo. Mia madre si metteva le scarpe, poi quel giaccone; ogni cosa che indossava era una spinta verso la disperazione. Mi colse un’ansia vertiginosa.
Lei mise un dischetto nel videolettore e l’accese, disse: – Adesso con la Cristina vi vedete un bel cartone. E’ una storia bellissima e prima che finisca sarò di ritorno. –
Tutto s’ingarbugliò nel mio cuore, come un groviglio di nodi che qualcuno stringesse sempre più.
– Non voio vedere la televisione! –
Voltai la schiena a lei e alla televisione, diventai dura come un baccalà e non la guardai più. La sentii uscire, sentii la porta che si chiudeva e il garbuglio diventò un buco, una ferita oscura e fonda.
Poi Cristina spense la televisione, mi venne vicino e mettendosi in ginocchio mi abbracciò forte forte. Io scoppiai a piangere con la faccia contro il suo collo e quell’abbraccio e quel pianto disfarono il groviglio, scompigliarono quel garbuglio come se i denti e gli artigli della bestia che mi stringeva l’anima l’avessero fatto a pezzetti e la compassione di Cristina li avesse soffiati via in un turbine.
Singhiozzando chiesi: – Tu mi vuoi bene, Chistina? –
Non riuscivo ancora a pronunciare cr.
– Tanto tanto tanto, amore mio. Un bene dell’anima! Se potessi, ti porterei via con me. –
Era una ragazza molto giovane, magra, con dei bellissimi occhi verdi. Non l’ho mai dimenticata.
La televisione io non volevo vederla, nemmeno i cartoni animati.
Volevo stare sempre sulla terrazza, quando ero a casa mia, ma non sempre me lo permettevano. Non potevo stare fuori quando faceva freddo né quando pioveva né quando faceva troppo caldo. Non dovevo fare nulla che non facessero tutti.
Ero in casa quando mi parlò. Il glicine era fiorito e fuori era ancora chiaro ma cominciava a piovere. Scrivevo delle frasi semplici, delle frasi sulla primavera, erano i miei compiti di scuola per quel giorno. Mi sembra che quella primavera dopo la morte del nonno sia stata la più lunga della mia vita. Avevo perso lui, avevo perso una sponda sull’abisso del disamore, eppure non avevo paura. Mi mancava, quella sponda, ma procedevo dritta rasentando l’altra: la nonna. E poi erano apparsi degli appigli: la maestra Donatella, Mattia ed Elena; avevo degli amici e il nonno lo vedevo tutti i giorni. Avevo il cuore pronto, mi affezionavo a tutti, persino al piscologo, e molti si affezionavano a me.
E quella primavera era arrivata la bebisitter Francesca. Era allegra, aveva i capelli corti e neri, la pelle bianca rosea sulle guance; era alta e snella, con una gobbetta sul naso appuntito e corto, un bel viso rotondo e infantile, benché avesse già venticinque anni e fosse una delle mie bebisitter più vecchie. Scherzava sempre, mi prendeva in giro e mi faceva ridere continuamente e aveva un vocione che sembrava già una presa in giro. L’amai subito con trasporto ed entusiasmo.
Mentre facevo i compiti la bebisitter Francesca mi preparava la merenda. Non ricordo se mia madre fosse in casa ma non credo.
Arrivò quel ragazzo, aveva un viso addolorato e spaventato, vedevo bene solo il suo viso e non avrei voluto vederlo.
“ Mi senti, tu puoi sentirmi! “
Sapevo che voleva aiuto ma subito mi ribellai. Non era giusto che me lo chiedesse.
Anche la bambina entrò, lo guardava stupita, credo volesse fare qualcosa per me.
Sentii che la sua voce affranta stava avviluppando la mia anima, un’anima così piccola e inadeguata. Mi schermii senza indugiare, scossi la testa, dissi con stizza e quasi gridando: – Non posso, sono troppo piccola! – e continuai a scrivere le mie frasi.
Francesca si avvicinò: – Ecco che parla da sola! Parla col quaderno, con la matita e con le parolette sul quaderno. Adesso le parolette si metteranno a ballare e le matite faranno un’orchestrina. –
Cominciai a ridere e lei diceva: – Cosa ridi? Cosa ridi, balenga? – e mi fece il solletico.
Ma continuavo a sentire il ragazzo che mi chiamava. Allora accesi il televisore.
– Cosa fai? – chiese Francesca, mentre tornavo al mio quaderno e alle mie parolette.
Se fosse successo qualche mese prima, le avrei raccontato tutto, ma adesso temevo che mi avrebbe creduta matta. Quasi implorandola, dissi: – Mi è venuta un po’ paura, il televisore mi distrae. –
– Va bene, allora. – concesse lei, seria.
Francesca mi capiva: non vedeva le anime dei morti ma quelle dei vivi sì. Mi diceva sempre “Silvana, tu sei una ragazza speciale”, lo diceva per prendermi in giro ma sapevo che lo pensava davvero.
Da quel pomeriggio in poi mi capitò di accendere ogni tanto la televisione o la radio. Continuavo a giocare o a fare i compiti ma non volevo sentirli. Erano disperati, altrimenti non avrebbero cercato il mio aiuto, ma io ero troppo piccola per la disperazione.
Nell’anno della morte del nonno cominciai anche a prendere lezioni di piano.
Mia madre avrebbe voluto che cominciassi prima, subito all’inizio della scuola elementare, ma mio padre la convinse che era meglio aspettare, che due scuole insieme forse erano troppe per cominciare, che dovevo avere un po’ di tempo per abituarmi allo studio.
Mio padre io non lo vedevo quasi mai, lavorava moltissimo. La sera lui e mia madre uscivano spesso e non sempre per divertirsi. C’erano persone che era utile frequentare. Poi c’erano persone che era utile invitare a casa nostra, di solito a cena, ma io non potevo far parte dell’allegra brigata.
A volte per preparare e per servire la cena arrivavano un giovanotto e una signora taciturna e sbrigativa un po’ più giovane della nonna. Il giovanotto era simpatico, mi diceva: – Tu vieni qui, che devi ingrassare. – e mi faceva assaggiare uno o due bocconi di ogni pietanza.
Solo per questo ero contenta quando c’erano invitati.
Tutti, entrando, dicevano “Che bella casa!” ma io quella bellezza non riuscivo a vederla. Capivo che i grandi vedono diversamente dai bambini, come gli uccelli dai pesci.
Quando c’erano invitati mio padre e mia madre diventavano più affettuosi con me. Da piccola mi piaceva; appena sapevo che aspettavano qualcuno a cena mi sentivo euforica, saltellavo per casa come un grillo, cantavo e strillavo di gioia.
Ricordavo questo a malapena, fino a qualche tempo fa, ma ora tutto mi è tornato in mente; ogni minuzzolo, ogni briciola del mio passato è nitida e distinta. Come se io fossi un passero affamato, che non può trascurarne nessuna se vuole sopravvivere.
Mia madre si spazientiva, mi sgridava, ma mio padre no, a volte canterellava anche lui. A volte, passando, mi faceva una carezza sui capelli.
Per questo l’attesa degli ospiti era per me un’attesa di felicità.
Poi, pian piano, l’ansia e la delusione continua si addensarono in un grumo duro come una pietra. Era nel mio cuore, quella pietra, ma non diventò mai oscura; era come un diamante, luminosa e inattaccabile.
Quando il nonno morì, quando incominciarono le lezioni di piano, ero già così e non aspettavo più gli ospiti, e l’atteggiamento affettuoso dei miei genitori in loro presenza m’infastidiva.
L’insegnante di piano veniva a casa nostra prima una, poi due volte la settimana.
Era una giovane donna rigida. Piaceva molto a mio padre e mia madre perché era cortese e corretta e sopratutto perché era una promessa della musica: una giovane pianista già famosa che li trattava quasi con deferenza. Credo che la pagassero molto. Si chiamava Natalia Truscina, i miei pronunciavano molto spesso il suo nome in ogni conversazione con persone a cui tenevano. Ne parlavano come se fossero in grande confidenza con lei.
Io aspettavo le lezioni di piano con un’inquietudine dolorosa, chiedevo sempre a mia nonna di venire a sentirmi ma lei si mostrava titubante: la sua presenza alle lezioni di piano era considerata un’intrusione. Quando c’era, quelle poche volte, e con lei anche l’anima del nonno, io ero più brava e capitava perfino che ricevessi degli elogi dalla mia insegnante. Una volta convinsi la bambina a stare con me durante la lezione ma dopo pochi minuti scappò via. Quando io e Natalia eravamo da sole diventavo sbadata e stupida, il peso della sua malevolenza mi intorpidiva.
Era alta e aveva mani lunghe ed aggraziate. Ora so che era molto bella, coi capelli chiari, gli occhi grigi e un volto ovale che poteva apparire dolcissimo.
Lei non alzava mai la voce, non era mai aggressiva. Neanche gentile. Ma io sapevo di esserle antipatica, vedevo la sua ostilità: nello sguardo, in ogni movimento, nel tono di voce, nell’espressione del viso. Gli unici momenti in cui smetteva di volermi male erano quando suonava lei stessa il pianoforte: allora tutta la sua freddezza e la sua paura scomparivano. Per questo glielo chiedevo sempre, ma lei mi accontentava raramente. Adesso credo che lo considerasse un deporre le armi e lo temesse.
Ci sono persone così, che si sentono a disagio con i bambini. Anch’io avrei potuto diventare una di loro.
Mio padre, inaspettatamente, venne più di una volta alle mie lezioni di piano; capiva che non ero brava ma non mi rimproverò mai. Gli interessava Natalia, cercava di parlarle come se fosse un esperto di musica. Natalia conversava con lui di buon grado però dentro di sé rideva di lui e lo disprezzava. Lo vedevo e lei sapeva che lo vedevo e questo la rendeva più rabbiosa; così, quando mio padre veniva alla lezione, io ero ancora più impaurita e infelice.
C’erano tante cose che mi consolavano. Mettere i piedi sui sassi dell’acciottolato del cortile, e ancora di più quando erano bagnati di pioggia. L’odore della pioggia nel cortile, sull’asfalto della strada, sulle foglie. Stendermi sulla terrazza e guardare il cielo quando mia madre non c’era. La bebisitter Francesca che si stendeva sulla terrazza insieme a me. La bambina che mi ronzava intorno. Il ricordo del nonno. Andare a casa di Mattia o di Elena a giocare e a fare i compiti, e le mamme stavano con noi e ci aiutavano.
La nonna aveva gli occhi azzurri come il cielo, ma non il cielo di Milano, il cielo delle Alpi dove andavamo a sciare tutti gli anni. Da piccola credevo che fossero due cieli diversi ma non ebbi mai occasione di dirlo a nessuno.
Quegli occhi così azzurri vedevano dentro di me e io li cercavo continuamente, erano amorevoli e sicuri.
La nonna non aveva paura di niente e così neanch’io avevo paura di niente, quando ero con lei; poiché ero con lei tutti i giorni, un po’ del suo coraggio mi restava attaccato sempre. Aveva i capelli grigi tagliati corti e ondulati come i miei e quelli di mia madre; era elegante, portava dei golfini celesti come i suoi occhi, un cappotto beige un po’ svasato o un giaccone azzurro. La sua voce era chiara, dolce ma decisa.
Mi riaccompagnava a casa nel pomeriggio però qualche volta restavo da lei tutto il giorno e anche la notte, e allora gustavo la felicità completa, la pietra che avevo nel cuore si dileguava senza lasciare traccia. Quei giorni e quelle notti con mia nonna, senza l’assillo del ritorno a casa, hanno dato forza e salute alla mia infanzia. Mi crogiolavo in un nido di benevolenza e affetto, nella tranquillità del volerci bene ed apprezzarci vicendevolmente. Era come per un fuggiasco, abituato a precari ripari, trovare un rifugio sicuro in cui non doversi cautelare né difendere.
– Se la mamma e il papà morissero, io dove andrei? – le chiesi una volta.
“Mamma e papà” erano in viaggio da qualche parte senza di me.
– Tua mamma e tuo papà sono giovani e sani. Quando moriranno sarai grande e avrai dei bambini più grandi di te, forse sarai vecchia come me. –
La nonna puliva degli spicchi d’aglio, io buttavo le bucce nel secchio dell’organico e osservavo con molto interesse tutti i rifiuti ammucchiati lì dentro: c’erano colori vivaci, odore di marcio, il bianco candido di un guscio d’uovo.
Sorrisi: – E allora perché i tuoi genitori sono morti tanto tempo fa? –
– Oh, allora la gente moriva prima. Adesso si campa fino a cent’anni. –
Istintivamente guardai il nonno, la sua ombra accanto all’acquaio. Lui mi fece segno di lasciar perdere e di non dar retta. Lasciai perdere, sperai che i miei genitori morissero.
– Ma potrei stare con te, se muoiono? – insistetti soltanto.
– Certo che staresti con me, che discorsi fai? Non ci devi nemmeno pensare. –