Ultima lettera di Giacomo Ulivi, 19 anni, condannato a morte della Resistenza, fucilato il mattino del 10 novembre 1944 sulla Piazza Grande di Modena.
Dal libro “Lettere di condannati a morte della Resistenza europea”
E’ una delle tante lettere raccolte nel libro “Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea”. Un libro che non dovrebbe mancare in nessuna casa, in nessuna famiglia; un libro che ogni adolescente dovrebbe leggere e conservare per capire e tramandare la storia come è davvero: azioni e sentimenti che nascono negli individui ma che rappresentano il sentire e l’agire di interi popoli. E, se qualcosa ci unisce agli altri popoli d’Europa, non è certo l’Unione Europea, un superstato fuori dal controllo dei popoli e strumento, invece, dei poteri economici del capitalismo globale. Ci uniscono i sentimenti e l’agire che resero possibile la Resistenza al nazismo e al fascismo di tanti giovani, i sentimenti e l’agire che anche oggi ci fanno resistere a questo nuovo tentativo di dittatura.
Ho scelto di presentarvi la lettera di Giacomo Ulivi perché mi sembra particolarmente attuale. “… la parte di responsabilità che abbiamo nei nostri mali”, dice questo ragazzo di diciannove anni. Guardiamola anche oggi, la parte di responsabilità che abbiamo: chi ha nutrito e reso così potenti quelle multinazionali che oggi, col pretesto della pseudopandemia, vogliono imporci una dittatura cibernetico-biosintetica? Sono stati i nostri consumi, i nostri stili di vita, il nostro disinteresse, la nostra irresponsabilità. Il pianeta andava in malora ma non era colpa nostra, dovevano pensarci “le autorità”. “Io, cosa posso farci?” ci dicevamo, e continuavamo spensieratamente a consumare senza discernimento, a viaggiare per collezionare mete esotiche, a rifiutare ogni limite ed ogni freno. Ora non c’è più tempo, ora è tempo di lottare contro la dittatura pandemica ma contemporaneamente progettare una società diversa e contraria, e agire coerentemente per costruirla. Buona Resistenza e viva la Resistenza!
vi vorrei confessare, innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L’avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo all’argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire “falso”, di inzuccherare con un preambolo patetico una pillola propagandistica. E questa parola temo come un’offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi.
Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami al flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano.
Ma, soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete, perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco, per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia ed al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà: nel desiderio invincibile di “quiete”, anche se laboriosa, è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. E’ il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato, è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della “sporcizia” della politica che mi sembra sia stato inspirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è il lavoro di “specialisti”.
Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – ci siamo scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a se stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? che cosa abbiamo creduto? creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un’avventura senza fine; e questo è il lato più “roseo” io credo. Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi, la “cosa pubblica” è noi stessi; ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come “patriottismo” o amore per la madre che in lacrime e catene ci chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura, è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L’egoismo – ci dispiace sentire questa parola – è come una doccia fredda, vero?
Sempre, tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di retorica. Facciamoci forza, impariamo a sentire l’amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell’ombra si dilati indisturbato.
E’ meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L’egoismo, dicevamo, l’interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l’ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco: inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della “cosa pubblica”, insomma, finiscono per coincidere. Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere !
Ricordate, siete uomini, avete il dovere, se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli…