La madre acqua e i matricidi

Mari e terre, creature viventi, acque ed elementi, tutto ormai viene visto soltanto in funzione di quanti soldi potrà fruttare.

Il capitalismo globale, apice di una società di guerra e competizione, di conflitto e sfruttamento, sta modellando tutta la nostra cultura, dopo aver occupato quasi totalmente produzione e commercio, aver conquistato e sottomesso la politica e l’informazione.

Gli oceani di cui parla questo brano del libro “La Vita Sacra” sono oggi minacciati anche dalle ultime “corse all’oro” del globalcapitalismo: le biotecnologie e l’estrazione mineraria pro-batterie elettriche. Ambedue queste attività adducono a pretesto, con una faccia di bronzo degna dei predoni che le svolgono, una falsa transizione ecocompatibile: è invece una folle e finale distruzione dell’ambiente e della vita.

Mentre il mercato delle biotecniche cerca il profitto nello sfruttamento e nella modifica di organismi e microrganismi marini, dai batteri alle microalghe, il mercato della cibernetica e delle batterie elettriche vuole rastrellare i fondali profondi (consumando in quest’attività milioni di barili di petrolio) per depredarli dei minerali da utilizzare, tra l’altro, per bici e monopattini elettrici, per il 5G, allo scopo di perpetuare l’orgia di consumi e spreco in cui stiamo affondando.

Cambiare tutto per non cambiare nulla è, come sempre, il modo di agire di un sistema che, per non estinguersi, minaccia ormai di estinguere la vita.

Continuare a produrre e consumare senza misura e senza limiti, sfruttare senza misura e senza limiti: che significa distruggere senza limiti.

Dal libro “La Vita Sacra”, di Sonia Savioli


Nesti, Yemanja, Undine, Mami Wata, Ganga, Sarasvati. L’acqua era madre. Una madre universale e familiare, che pervade ogni molecola di vita e che è presente, nelle sue manifestazioni più evidenti, accanto agli esseri umani. Che nei laghi gettavano offerte, statuette votive; che raccoglievano in vaschette di terracotta l’acqua che gocciolava dalle stalattiti; che s’inchinavano ai fiumi e vi si bagnavano pregando; che offrivano fiori alle sorgenti, buttavano fiori nei fiumi e nei laghi.

Anfore e brocche venivano decorate con le immagini dell’acqua, della vita, della fertilità, del ciclico rinnovamento: onde, gocce di pioggia, fiori, galli, anatre e gru, spirali e reti. Ogni fonte era sacra, ogni fiume era madre.

In tutte le religioni che conosciamo l’acqua battezza, purifica e accoglie: consacra alla vita.

All’Epifania i cristiani ortodossi e i loro sacerdoti benedicono le acque; lo fanno recandosi a un fiume o un lago; se non ve ne sono nelle vicinanze, benedicono e ringraziano l’acqua raccolta in un recipiente all’interno del tempio. Così come all’interno delle chiese cattoliche vi è l’acquasantiera, in cui s’immerge la mano per farsi poi il segno della croce: l’antico segno della luce. In Russia, la notte dell’Epifania, uomini e donne s’immergono nell’acqua gelida dei laghi, dei fiumi, del mare, in un simbolico rito di rigenerazione; e vi s’immergono tre volte. Tre: vita, morte, rinascita; acqua, terra, luce. Il padre, il figlio, lo spirito santo.

Un rito millenario di cui la ragione umana ha perso il senso, conservato però dai sentimenti e da un ancestrale subconscio.

Per tutti i popoli che vivevano sulle coste o sulle isole il mare era sacro e divino: una divinità infinita e immanente, a cui si doveva gratitudine e rispetto. Un mondo brulicante di vita misteriosa, baluginante, indovinata e indispensabile. Coloro che in mare gettavano le reti, che trapassavano con le fiocine i pesci, che raccoglievano telline e granchi sugli scogli, adoravano il mare e le sue creature, chiedevano perdono al dio dei salmoni o delle aringhe, erano fratelli dei delfini e forse anche dei polpi.

A Creta, nella raffinata, pacifica e felice civiltà minoica, delfini e polpi venivano raffigurati negli affreschi e sulle anfore con arte splendida e dettagliata.

Le creature metà donna e metà pesce, quelle che noi chiamiamo “sirene” e che non sono altro che la raffigurazione della Madre Acqua, ci guardano ancora dai capitelli delle chiese romaniche, mentre i delfini riemergono dagli scavi archeologici assieme a bacili di pietra dalle funzioni sacre.

Nell’acqua si “rinasce”. Nei battesimi cristiani, nell’Epifania russa, nel bagno che ci deterge dalla sporcizia, dalla stanchezza, dal disgusto, noi “rinasciamo”.

La Madre Acqua diventerà un padre per le società di guerra e dominio: Poseidone, Nettuno; il dio del mare sarà potente e temibile.

Ma sarà ancora un dio: da rispettare e pregare, al quale fare offerte, a cui essere grati per i suoi doni munifici e magnifici.

Dai e dai lu vitti lu vitti lu vitti…

Fino a che è esistita la pesca tradizionale del pescespada tra Scilla e Cariddi, una pesca plurimillenaria, essa è stata accompagnata da tutti i riti connessi con la colpa, l’espiazione, il ringraziamento. Intanto, era una pesca di sicuro “ecologicamente compatibile”, dato che gli esemplari catturati e uccisi erano pochissimi rispetto alla popolazione complessiva. Era una pesca difficile, faticosa, lunga e rischiosa, dai risultati incerti; era fatta con piccole imbarcazioni, le feluche, e con la fiocina lanciata a mano.

Avvistato il pesce, un esemplare adulto di grossa stazza, i pescatori intonavano una cantilena rituale, ripetuta continuamente fino alla cattura; una filastrocca antica in una lingua ormai sconosciuta. Quando infine, dopo una lunga fuga in cui la feluca lo seguiva, l’animale veniva issato a bordo dissanguato, morto o moribondo, uno dei pescatori tracciava con l’unghia sul suo corpo quattro linee verticali e quattro orizzontali sovrapposte: la rete della vita nella quale si invitava il pesce a ritornare. Dalla quale i pescatori non si erano strappati, né avevano strappato lui, nonostante la sua sofferenza e morte. Perdono, grazie.

Oggi, nel trionfo finale della società gpr, si pesca il pescespada con le palamitare e con le reti derivanti: tra Scilla e Cariddi reti lunghe anche cinque chilometri ramazzano tutto quello che c’è nel mare, sconfinano oltre lo stretto per non lasciare agli animali alcuna possibilità di scampo, uccidono spadelli anche di pochi etti, mentre il pescespada dei vecchi pescatori pesava più di un quintale e si era già riprodotto innumerevoli volte nella sua lunga vita. Distruggono, fanno a brani la rete della vita.

Ma non ci sono più pescatori, solo imprenditori: la vita si vende e si compra.

Oggi i capodogli morti di fame in un mare ormai svuotato si arenano sulle spiagge del Mediterraneo; nel Golfo del Messico granchi deformi risalgono a riva per morire; sulle coste dell’America del nord i cadaveri dei leoni marini e dei delfini, straziati e uccisi dalla radioattività di Fukushima, imputridiscono sotto il sole; il mercurio intride le carni degli animali marini; i loro stomaci e tutti i loro organi sono zeppi di molecole di plastica.

Oggi lungo le coste della Bretagna il mare è avvelenato dai pesticidi e dai concimi chimici, i nitrati fanno proliferare abnormemente alcuni tipi di alghe, soffocando ogni altra forma di vita; lungo le coste della Calabria, nell’arcipelago toscano, decine di navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi sono state affondate apposta, perché lo smaltimento dei rifiuti tossici, e ancor più di quelli radioattivi, è diventato un affare, un’attività che fa guadagnare molti soldi alle mafie e che fa risparmiare molti soldi ai padroni.

Oggi nell’oceano galleggiano continenti di plastica marcescente, grandi isole di morte senza resurrezione che si spostano lentamente uccidendo tutto ciò che si trova sul loro cammino, comprese le creature animali e vegetali dei fondali marini. E ogni giorno i venti, i fiumi, le onde portano nuovi veleni, nuovi rifiuti, nuove cose immonde in quantità incommensurabile al mare, al più grande continente di questo nostro pianeta. Un continente senza scampo, perché fatto di un elemento che tutto abbraccia, tutto assimila e in cui tutto viaggia e si diffonde.

Oggi migliaia di piattaforme di trivellazione per il petrolio e il gas bucano i fondali marini, per farlo usano fluidi chimico-sintetici velenosi; sulle piattaforme lavorano e vivono centinaia, a volte migliaia di operai e tecnici che producono rifiuti, liquami, immondizia e sozzure di ogni genere, e la gran parte di ciò finisce in mare; le piattaforme sono vere fabbriche in pieno oceano, usano solventi, detergenti, petrolio, producono sporcizia e inquinamento della più grande varietà.

Oggi le navi da crociera, vere città galleggianti, solcano gli oceani cariche di migliaia di persone che passano il loro tempo a sgavazzare, mangiano e bevono come maiali ma d’allevamento intensivo poiché, come per quei poveri disgraziati (che però non hanno scelta e non lo hanno scelto) non c’è molto di meglio da fare su quelle costruzioni mostruose che col mare hanno un unico tipo di rapporto: utilizzarlo come mezzo di spostamento. Ovviamente tutti coloro defecheranno in proporzione al cibo che ingurgitano, cibo perlopiù tossico che produrrà merda tossica, e plastica, polistirolo, detersivi, detergenti, sapone, sciampo, cosmetici, cocaina, merda e piscio, bottiglie di ogni materiale, lattine, preservativi e assorbenti, pannolini da bambini e pannoloni da vecchi incontinenti, medicinali, tutto finirà in mare; di notte, quando quasi nessuno vede, e se qualcuno vede se ne frega perché, se non se ne fregasse, non sarebbe andato in crociera.

Oggi il mare è diventato la nostra cloaca, il nostro pitale, il ventre in cui scarichiamo tutto il nostro schifo nell’illusione così di nasconderlo. Ma, come nei film gialli il cadavere seppellito in giardino finisce per rispuntare fuori, così ormai i continenti di plastica, i mari di petrolio dalle petroliere naufragate e dalle piattaforme esplose, di pesticidi e di solventi, di concimi chimici, di detersivi, di medicinali ritornano a noi, navigano nel nostro sangue, si depositano nei nostri organi. Aragoste e cozze, ostriche e tonni, branzini e sogliole: tutti sono pieni di plastica e ce ne nutriamo mangiandoli; tutti hanno la loro dose di mercurio che passerà nel sangue di chi se ne ciba.

Le acque di mezzo mondo sono state avvelenate dagli umani: acque dolci e salate, acque di fiume, di lago, di falda. Acque sprecate, sciupate, inquinate.

L’acqua, al culmine della società gpr, non ha più nulla di sacro; è invece diventata una merce, quella potabile, o un terreno di rapina, il mare saccheggiato senza limite e senza pietà.