Nelle poesie di Giovanni Pascoli spesso traspare inevitabilmente il rimpianto della perdita. Le tragiche vicende della sua famiglia non potevano che segnare indelebilmente carattere e sentimenti. Tuttavia, il rimpianto e la tristezza svaniscono o si stemperano quando protagonisti delle sue poesie sono i campi e i boschi, le macchie e i casolari della Romagna campagnola, quando descrive i sogni della sua infanzia libera in una libera natura, quando canta la vita semplice ed essenziale e ricca di sentimenti della sua gente.
Non vi fate scoraggiare da parole che trovate inusuali; rileggetele più volte, queste poesie. La mia generazione e quelle precedenti le hanno imparate a memoria e ne hanno ricavato ricchezza di fantasia, di immaginazione, di comprensione. Non facciamoci derubare anche della grande ricchezza che è la poesia. “Un popolo è povero e servo quando perde la lingua ereditata dai padri”. La poesia è non solo la lingua che parliamo ma la lingua dei sogni, dell’immaginazione, della fantasia, del ricordo. Senza di essa un popolo è davvero, e irrimediabilmente, povero e servo.
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino:
sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l’altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l’anatra iridata,
oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell’aie;
mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e il bue rumina nelle opache stalle
Da’ borghi sparsi le campane intanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini.
Già m’accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fiorìa la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa;
e s’abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un birichino.
Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.
E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo pel sognato alone,
udia tra i fieni allor allor falciati
de’ grilli il verso che perpetuo trema,
E lunghi, e interminati, erano quelli
ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d’uccelli,
risa di donne, strepito di mare.
Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive;
gli altri son poco lungi; in cimitero.
Così più non verrò per la calura
tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozioso i piccolini,
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
Lo so: non era nella valle fonda
suon che s’udia di palafreni andanti:
era l’acqua che giù dalle stillanti
tegole a furia percotea la gronda.
Pur via e via per l’infinita sponda
passar vedevo i cavalieri erranti;
scorgevo le corazze luccicanti,
scorgevo l’ombra galoppar sull’onda.
Cessato il vento poi, non di galoppi
il suono udivo, né vedea tremando
fughe remote al dubitoso lume;
ma voi solo vedevo, amici pioppi!
lungo la sponda del mio dolce fiume.
tra il cricchiar della mortella.
– Sola (o Dio, bubbola e tuona!)
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
Ritornava una rondine al tetto:
ella aveva nel becco un insetto:
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
Anche un uomo tornava al suo nido:
e restò negli aperti occhi un grido:
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi